martedì 21 aprile 2020

L'aquilone



La vita non era stata gentile con Narciso. Sua madre, Emilia, lo aveva chiamato così perché era nato in aprile quando i narcisi che aveva nel piccolo giardino davanti casa erano fioriti.

Era nato quasi alla fine della guerra. Sua madre e suo padre erano sfollati dal paese, occupato dai tedeschi e vicino alla Linea Gotica. Ce l'avevano fatta a passare le linee e ad arrivare da dei parenti verso Pisa.

Dopo un anno dalla sua nascita poterono tornare al paese. La casa aveva subito, come altre, la razzia delle povere cose e il vandalismo delle truppe tedeschi in ritirata.

Ripresero a vivere lentamente, suo padre trovò lavoro come manovale nella piana dove la ricostruzione era iniziata. Sua madre badava alla casa e a quel bambino gracile.

Con il passare degli anni si accorsero che Narciso era sordo, seguiva con gli occhi il dito di sua madre quindi non era cieco ma anche se lei parlava lui la guardava senza dare nessun segno.

Il medico dopo averlo visitato gli disse che era sordo dalla nascita e che quindi non sentiva i suoni e non avrebbe parlato per quella condizione.

A quel tempo sia per le condizioni della famiglia che per la distanza dalla cittadina non potevano permettersi di pagare qualcuno che magari gli insegnasse a parlare con la lingua dei gesti.

In casa avevano trovato un loro modo di comunicare, piccoli gesti della quotidianità. 

Ma quando quelli della sua età giocavano in gruppo, nella piazza magari a nascondino lui rimaneva in disparte. Avevano provato a coinvolgerlo ma non era facile giocare con un sordo e, a volte, anche pericoloso per lui e i suoi amici.

A scuola non poteva andarci, sarebbe stato inutile e non c'erano certamente insegnanti di sostegno. 

In paese c'era un falegname, Giulio, che aveva lavorato in un cantiere navale in Francia per una decina di anni e aveva avuto un compagno sordo che gli aveva insegnato molte parole nella lingua dei segni oltre alle espressioni facciali per indicare lo stato d'animo.

Giulio le aveva scritte su un quaderno dalla copertina nera accompagnando da disegni che gli aveva fatto il francese.

Giulio aveva la bottega sulla piazza e mentre lavorava di pialla vedeva quel ragazzino seduto sugli scalini della chiesa mentre gli altri giocavano e a lui che non aveva figli gli si stringeva il cuore. 

Un giorno andò a casa di Emilia e gli disse che se era d'accordo avrebbe provato a insegnare quella lingua strana a Narciso e anche a lei. Gli disse anche che non voleva soldi o altro ma che lo faceva per Narciso.

Emilia gli disse che ne avrebbe parlato con il marito. La sera quando arrivò il marito gli raccontò di quello che Giulio gli aveva detto e e lui disse che se non costava nulla tanto valeva provare.

Tre volte la settimana la sera Giulio andava a casa di Emilia e Narciso con il quaderno nero. Il marito, stanchissimo andava a letto presto e nella piccola cucina iniziavano le lezioni.

Giulio era paziente e mimava i gesti che loro dovevano ripetere. Usava anche gli oggetti così che capissero come si diceva il nome di quella cosa con le mani e non con la voce. 

Dopo qualche mese sia Emilia ma sopratutto Narciso riuscivano a comunicare con i gesti e anche suo padre aveva imparato qualche parola a gesti. Giulio era felicissimo, aveva regalato un quaderno uguale al suo al ragazzino sul quale gli faceva copiare i disegni delle varie lettere.

In paese, dopo qualche tempo, i paesani e anche i ragazzini avevano imparato a salutare con i gesti Narciso che sorrideva a tutti ed era felice. Passava dei pomeriggi davanti alla bottega di Giulio "parlandoci" a gesti.

Iniziò anche a insegnare ai suoi amici come fare dei gesti per spiegargli le cose, o i giochi. Anche se con difficoltà la vita di Narciso iniziò ad essere più viva. E anche se il silenzio lo accompagnava i gesti, le espressioni, di sua madre e di tutti quelli con cui aveva a che fare gli rendevano meno dura la sua condizione.

Un giorno Giulio gli insegnò a costruire un aquilone. Prese una canna, la tagliò in quattro poi ne legò due a croce le legò bene insieme, ci passo una mano di colla e ci stese una carta velina azzurrata. Rinforzò gli angoli, poi prese quattro pezzi di spago, lo legò ai quattro angoli poi, centralmente al capo del rotolo.

Tirò dal gomitolo una ventina di metri di spago, li avvolse su una bacchetta di legno e poi portò Narciso nei campi dietro la chiesa.

Gli fece vedere come doveva fare per farlo volare. Giulio iniziò a correre tenendo l'aquilone in alto con al mano e nell'altra lo spago. Il piccolo pezzo di carta azzurrina si librò nel cielo come una farfalla. poi su, in alto, mentre Giulio gli dava spago.

Narciso era a bocca aperta, fissava il piccolo pezzo di carta che volteggiava nel cielo. Dopo vari tentativi riuscì a farlo volare anche lui. Correva ridendo e quell'aquilone lo seguiva lassù in alto.

Dopo qualche giorno era diventato un esperto. Pochi passi e l'aquilone si librava leggero nell'aria, poi muovendo lo spago gli faceva fare piroette, picchiate e risalite.

Insegnò anche ai suoi compagni come farlo volare e poi chiedendo il permesso a Giulio, ne costruì altri per i suoi amici.

I campi dietro la chiesa erano il loro regno. Iniziarono a ritrovarsi lì ognuno con il suo aquilone e facevano a gara a chi lo teneva in aria più a lungo o più in alto.

Passarono gli anni e Narciso aveva iniziato a lavorare nella bottega di Giulio. Ma la passione per gli aquiloni non lo abbandonò mai. Li costruiva nei momenti di pausa da lavoro e poi, la domenica li portava in regalo ai ragazzini degli altri paesi.

"Arriva il Mutino!" uralvano quando lo vedevano arrivare con tutti quei rombi colorati in mano. Ed era festa grande per chi non aveva giocattoli industriali come oggi. 

E quando, dopo avergli insegnato come farli volare, lui si metteva sdraiato sul prato e guardava il cielo riempirsi di macchie colorate che volteggiavano senza sosta.

Si immaginava di essere un aquilone, che non aveva bisogno di parole ma solo del vento per volare libero in alto, su nel cielo, e quel filo di spago era il solo legame con la sua vita quaggiù.