venerdì 3 aprile 2020

Il fante con gli stivali


Domenico detto Menico e Alaide detta Lide si erano sposati nel 1911. Lui era un mutilato di guerra della Prima guerra mondiale. 

Gli mancava il braccio destro e quando portava il vestito della domenica la manica vuota la fissava a metà con una spilla da balia. Nella sfortuna aveva avuto fortuna, se così si può dire, essendo lui mancino.

Lei era figlia di carbonari, non i componenti della famosa società segreta, ma una famiglia che preparava il carbone per rivenderlo ai paesani o a una ferriera nelle vicinanze.

Lui aveva una misera pensione di guerra e non lavorava, lei ricamava corredi e tesseva al telaio  per conto terzi e qualche volta ne vendeva qualcuno in cambi di pochi generi alimentari.

Menico era nel corpo degli arditi durante la guerra, aveva aderito al fascismo perchè il reclutatore che veniva dalla città e che teneva comizi sulla pubblica piazza.

Lo aveva convinto con promesse, alla Brancaleone "Et infine avremo castella, ricchezze et bianche femine dalle grandi poppe" e più per le ricchezze che per le poppe Menico aderì.

Quindi aveva fatto la marcia su Roma. O meglio aveva tentato di farla.

Si era fatto fare dal calzolaio del paese un paio di stivali al ginocchio di pelle nera pagandoli con il moschetto che si era portato dietro dal fronte.

Il giorno della raggruppamento giù nella valle davanti al municipio si era messo i calzoni della divisa da fante, il cinturone, la camicia nera e gli stivali nuovi di zecca. Poi insieme ad altri era sceso lungo la mulattiera ma gli stivali avevano iniziato a fargli male sul calcagno e sulla punta delle dita.

Arrivò davanti al municipio dove erano radunati anche altri provenienti da altri paesini della montagna, in tutto erano una ventina. 

Menico si sedette sugli scalini del municipio e un amico lo aiutò a togliersi gli stivali. Tolte le calze di lana i piedi erano rossi ciliegia con delle sbicciature sul calcagno e sui pollici.

Menico, scalzo e con gli stivali in mano, si diresse verso la fontana della piazza per cercare un pò di sollievo immergendo le estremità piagate nell'acqua. Intanto alle sue spalle uno vestito con i gradi da tenente urlava a quella assortita compagnia "In riga! Avanti, mettetevi in riga!!"

Erano quasi tutti reduci della Grande Guerra, tranne qualcuno più anziano ma che aveva sposato la causa. Chi indossava la divisa del fante con calzari e scarponi, chi come Menico, la camicia nera, chi la divisa da alpino. Qualcuno aveva la baionetta agganciata al cinturone pochi quelli che avevano un arma.

Menico, scalzo, si mise nell'ultima fila con gli stivali in mano. Quello che sembrava il capo, il tenente, ulrò un "Attenti!!" che fece sobbalzare Menico intento a guardare le piaghe dei piedi.

"Ora si marcia fino a Livorno dove ci sarà la tradotta che ci porterà a Roma!!" urlò il tenente "E ora disponetevi a due a due e al mio ordine, in marcia!!"

Menico, si infilò le calze e mugolando dal dolore rimase nelle ultime file con gli scarponi in mano. Il percorso era su strade polverose e piene di sassolini che certamente non aiutavano il povero Menico ad alleviare il dolore.

Dovevano percorrere, a piedi, quasi una cinquantina di chilometri per arrivare a Livorno. L'improvvisato reggimento con alla testa il tenente su una vecchia Balilla con autista in camicia nera. Gli unici che non avrebbero fatto nemmeno un metro a piedi. Menico pensò la stessa cosa e la già flebile fede iniziò a vacillare.

Il gruppo si andava mano a mano ingrossando di nuovi adepti quando passavano dai vari paesi sul loro percorso. Marciavano con labari al vento, cantavano canzoni patriottiche. Verso le sette di sera, ed erano diventati circa un centinaio,  si accamparono nella pineta di San Rossore. Menico era stravolto e un paesano lo aiutò a sedersi sulla nuda terra.

Le calze di lana ormai erano un ricordo, pezzi attaccati alle piaghe dei piedi, sangue e pelle impastata alla polvere. Si sdraiò mentre il paesano gli aveva portato una borraccia per rinfrescarsi i piedi e la gola.

La notte il dolore era insopportabile. Menico si ricordò che poco prima di fermarsi avevano passato una casa colonica e aveva visto un paio di persone sull'aia. Pensò di tornare alla casa e vedere se potevano aiutarlo, magari con qualche benda improvvisata o qualche linimento.

Si diresse verso la casa, sempre zoppicando e con gli stivali in mano. Arrivato sull'aia vide una luce che trapelava da una finestra. Bussò alla porta. Dall'interno si sentì una voce d'uomo: "Chi è là?" ... "Scusate mi chiamo Menico, avrei bisogno di aiuto"... 

"Sei uno di quei beccamorti accampati nella pineta?"... "Si - disse Menico con una flebile voce - Ma non sono armato, ho solo bisogno di aiuto perchè ho i piedi piagati"... "C'è il pozzo dell'acqua , tira su il secchio e usa quella!" ... 

"Abbiate pietà di me - disse Menico - datemi un uovo che l'albume mi farà bene alle piaghe"... "Se non te ne vai - disse la voce dentro la casa - Esco con il forcone e ti infilzo come ..." 

La voce si interruppe... Menico senti una voce di donna, nella casa, che parlava piano ma capì poche parole... "E' solo, ho guardato dalla finestra, è scalzo e ha un braccio solo, non ha fucile..."

Menico si sedette in terra, non ce la faceva più, il dolore era insopportabile. La porta si aprì, uscì un uomo, altro robusto, un paio di grossi baffi, con un cappellaccio in testa e il panciotto con in mano una falce e nell'altra una lampada a olio.

"Alzati, vai avanti a me, là dove c'è la stalla" e gli indicò una costruzione poco oltre la casa.

Menico con enorme sforzo, appoggiandosi sull'unico braccio, si alzò, camminando verso la stalla "Siediti lì, su quella paglia" gli disse l'uomo. "Fammi vedere i piedi" continuò. Menico si alzò i pantaloni, l'uomo gli illuminò con la lampada e apparvero due cose informi piene di sangue.

L'uomo del cappellaccio gli porse un secchio con dell'acqua: "Lavateli" gli ordinò. Menico lo guardò e gli disse: "Non ce la faccio, sono stanco e ho un braccio solo. A casa è mia moglie che me li lava" tirò un sospiro poi continuò "Non voglio morire, voglio tornare dalla mia Lide"

L'uomo gli illuminò il volto  alzando la lampada e vide che piangeva, le lacrime gli avevano segnato le guance polverose. Poggiò la lampada su uno sgabello, iniziò a lavargli i piedi. 

Aveva dei pezzi di stoffa e glieli asciugò, poi tirò fuori un cartoccio dove c'era del grasso di maiale. Lo mise sopra la lampada poi ne prese un pezzo tra le mani strofinandole e mischiandolo a delle foglie d'erba e iniziò a massaggiare un piede alla volta.

Aveva le mani nodose, piene di tagli per la fatica di ogni giorno. Ma Menico, diceva quando lo raccontava, sembravano le mani della sua Lide, leggere.

Il contadino gli disse: "Per stanotte puoi dormire qui, questo è un pezzo di pane e l'uovo che volevi. Ma domattina devi essere sparito, non voglio storie con i tuoi compari"

Menico era così stanco frastornato che ebbe solo il fiato per dirgli:"Che Dio te ne renda merito" Il contadino rientrò in casa e si spense la luce. Menico crollò in un sonno profondo.

Verso la 5 di notte stava albeggiando e lo svegliò il rumore della vacche che muggivano perché, come vedeva da lontano la compagnia dei fascisti si era svegliata e stavano per ripartire. Da lontano li vedeva e sentiva i comandi urlati e qualcuno che cantava "Sole che sorgi libero e giocondo..."

Menico provò ad alzarsi e con fatica si mise in piedi, sentì che il dolore non era come la sera prima, era abbastanza sopportabile. Si mise in tasca il pezzo di pane e bevve l'uovo. 

Trovò nella stalla appoggiati al muro,  un paio di zoccoli di legno usati, un pò rotti. Prese gli zoccoli e al loro posto ci mise gli stivali. Poi trovò un pezzo di carboe e scrisse sul muro: "Grazie da un montanaro che non dimenticherà mai".

La compagnia era già sullo stradone verso Livorno il sole stava per alzarsi a est. Menico li guardava da lontano, una macchia nera che alzava la polvere mentre il canto si affievoliva lontano. 

Si fasciò i piedi con delle strisce che erano rimaste lì dalla sera prima, si mise gli zoccoli e si incamminò lentamente. Ma non verso Livorno o Roma ma verso casa sua, dalla Lide...

Arrivò a casa qualche giorno dopo, l'ultimo pezzo di strada fino al paese lo aveva fatto a dorso di mulo grazie a un paesano che aveva incontrato giù a valle.
Si riprese dopo qualche mese anche se i piedi a volte gli facevano ancora male. 

Bruciò la camicia nera e la vecchia divisa da fante nel campo e non volle più saperne di stivali, fasci e camice nere e quando, anche qui, ci fu la Resistenza faceva la staffetta portando gli ordini nella manica del moncherino.

Non seppe più nulla di quell'uomo e della famiglia che lo aveva aiutato quella notte.