Il cielo fin dal pomeriggio si era coperto di nuvole nere che venivano dal mare e promettevano pioggia. Tuoni e lampi rompevano il silenzio.
Tutti erano rintanati in casa e i camini fumavano mentre il vento fischiava tra le case formando piccoli mulinelli di foglie nella piazza del paese.
Prima di arrivare a questa notte dobbiamo tornare indietro di un mese, al febbraio 1952. Nel salone delle feste del Circolo operaio c'era stata, come tutti gli anni, la festa del martedì grasso.
Il salone addobbato con dei festoni di carta colorata e nel centro, appesa a una corda legata a una trave una pentola di terracotta.
Era la tradizione della pentolaccia, nata come rito ben augurante in primavera e in vista dei raccolti estivi.
Ma era anche l'ultima occasione di festeggiare laicamente prima della Quaresima.
Nella piazza i soci del Circolo avevano messo su una grande griglia su cui arrostivano allegramente salsicce e rosticciane accompagnate da pane casareccio e vino a volontà.
Nel salone la banda paesana sistemata sul palco suonava walzer, musichette ballabili e marcette. La festa aveva il suo culmine nella pentolaccia che, di solito, era riempita, oltre che da strisce di carta colorate, di biscotti o cantuccini perchè la cioccolata e i dolciumi in genere era merce rara all'epoca.
Finiti i balli la gente si allarga a cerchio nel salone e dall'alto calano la pentolaccia. Il maestro delle cerimonie chiama alla prova di abilità i ragazzotti del paese.
Il gioco era semplice. Chi provava a romperla veniva bendato, e dotato di un lungo bastone di legno con cui colpire la pentolaccia. Ma per rendere l'impresa più ardua la pentolaccia veniva alzata e abbassata generando colpi a vuoto e risate tra il pubblico.
Il tempo concesso era poco per permettere anche ad altri di partecipare al gioco. D'altronde avevano solo una pentolaccia a disposizione e più durava e più si divertivano.
Non era raro che il bastone manovrato alla cieca colpisse qualche testa con imprecazioni del colpito e grasse risate tra la gente. Dopo quattro concorrenti andati a vuoto si presenta per tentare l'impresa un giovanotto che si chiamava Omero.
Omero aveva sui 25 anni faceva il pastore e non era sposato ne fidanzato ma innamorato da anni di Emilia una ragazza di un paio d'anni più piccola di lui, capelli neri come la notte e due occhi verdi come smeraldo.
Così la vedeva lui ma, in effetti, Emilia era una bella ragazza ed era la figlia del maniscalco del paese, che si chiamava Settimo perché era il settimo di dieci figli. Anche lei non era fidanzata ne sposata e aveva molti spasimanti.
La domenica quando usciva la messa i giovanotti del paese appoggiati al muro la seguivano con sguardi fiammeggianti ma lei, a testa bassa e dietro a suo padre e sua madre non degnava nessuno di uno sguardo.
Emilia era la festa accompagnata da suo padre e sua madre e Omero al pari di altri giovanotti non l'aveva persa di vista, ma Emilia non aveva ballato con nessuno, suo padre era gelossissimo di lei e viste le mani del maniscalco nessuno osava avvicinarsi per chiedere un ballo.
Omero si fece bendare e dopo un paio di colpi ben assestati ruppe la pentolaccia fra le urla e l'applauso generale. I bambini corsero a prendere i piccoli sacchetti in cui erano i biscotti e Omero si tolse la benda lanciando un sorriso a Emilia che abbassò gli occhi.
Finita la festa tutti tornarono a casa e Omero rimase sulla piazza a ripensare alla sua Emilia. Passarono le settimane e infine decise che sarebbe andato sotto casa di Emilia e gli avrebbe fatto la serenata.
Ed è appunto quella notte buia e tempestosa che Omero decise di farlo. Coinvolse un vecchietto, Ademaro, che suonava il basso tuba nella banda paesana ma sapeva suonare anche l'organetto.
Uscì di casa e si avviò seguito da Ademaro, avvolto in un tabarro e con l'organetto. Giunto davanti alla casa di Emilia che era attaccata ad altre case nello stretto vicoletto battuto dal vento si posizionarono sotto la finestra della camera al primo piano che sapeva essere quella della sua amata.
Intanto i fulmini colpivano la vetta del monte disegnando arabeschi di luce nel cielo nero. Ademaro iniziò a suonare improvvisando e Omero a cantare a squarciagola la canzone che aveva scritto: "Fiore di campo io senza te non campo, negli occhi tuoi vorrei morire o dolce Emilia il mio cuor devi lenire "
Del cantore greco Omero aveva solo il nome e non certo la bravura nel poetare e rimare ...
Emilia sentiva, tra il rumore del vento e i tuoni la voce, non proprio intonata, che cantava ma la sentiva anche suo padre che si alzò dal letto e prese il pitale da sotto il letto.
A quel tempo non c'erano i bagni in casa ma fuori e non erano proprio bagni come quelli di oggi ma un tugurio di legno con un asse con un buco nel mezzo e una buca sotto. E la produzione veniva usata come concime.
La notte se per ragioni di necessità o di prostata la funzione, sia per gli uomini che per le donne, veniva espletata nel pitale riposto nel comodino o sotto il letto.
E certamente l'olezzo che rimaneva nell'aria della camera da letto, sia che fosse roba solida o liquida, non era certamente quello di uno Chanel n°5...
Con il pitale in una mano Settimo aprì la finestra e ne rovesciò il contenuto sul malcapitato cantore.
Omero rimase impietrito mentre Ademaro, che non era stato centrato dalla bomba ecologica, era già sparito nel buio.
"Prima che ti spari una fucilata - gli urlò Settimo - vattene a casa mascalzone!"
Omero colpito nei sentimenti ma sopratutto da contenuto del pitale, girò i tacchi e lentamente tornò verso casa mentre le cateratte del cielo si erano aperte e grandine e pioggia iniziavano a cadere furiosamente.
Per qualche mese Omero non andò più sulla piazza e rimase con le sue pecore su all'alpe e provò a dimenticare la sua Emilia.
Qualche anno dopo Settimo morì per un calcio di un cavallo che stava ferrando, Emilia, a seguito del lutto familiare, entrò in convento a Lucca e Omero rimase scapolo per tutta la vita.
"Amor, ch’a nullo amato amar perdona..."
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