Le donne erano e sono il centro di ogni famiglia, anche se una società maschilista come la nostra che le ha sempre osteggiate ed emarginate.
Io ho avuto la fortuna di passare la mia infanzia e la mia giovinezza, circondato dall'affetto e dagli insegnamenti di mia madre, delle mie due nonne e di altre figure femminili, le mie zie, le amiche di mia madre.
Io ho avuto la fortuna di passare la mia infanzia e la mia giovinezza, circondato dall'affetto e dagli insegnamenti di mia madre, delle mie due nonne e di altre figure femminili, le mie zie, le amiche di mia madre.
Una delle cose che amavo di più, quando ero piccolo, erano le vigilie delle feste come Pasqua e Natale. In particolare la Pasqua e la settimana che la precedeva diventava occasione di comunità e condivisione.
Mia nonna Mabella, fin dal lunedì, preparava la pasimata, un dolce pasquale tradizionale lucchese e garfagnino. Il nome deriva dal termone latino "pasimatum" che è il pane cotto sotto la cenere.
Una preparazione lunga e laboriosa che prevedeva l'uso del lievito madre che mia nonna conservava gelosamente e con cui faceva pane e dolci.
Una preparazione lunga e laboriosa che prevedeva l'uso del lievito madre che mia nonna conservava gelosamente e con cui faceva pane e dolci.
La pasimata è fatta con ingredienti poveri e richiede 4 giorni circa di preparazione con più lievitazioni e il risultato ottenuto ricorda un soffice panettone. Anche se la tradizione voleva solo l'aggiunta di semi di anice e a volte di zafferano, mia nonna ci aggiungeva anche un pò di uvetta bagnata nel cognac.
Doveva essere pronta per il Sabato Santo quando la mattina sarebbe stata infornata nel forno a legna di famiglia e poi portata in chiesa per essere benedetta insieme alle uova sode, simbolo della Resurrezione.
La cucina della casa dove abitava mia nonna Mabella era grande con un camino e un grande tavolo di legno con il piano di marmo, una crdenza e una madia dove impastava il pane. Un lavandino sempre di marmo e una cucina a legna.
L'acqua corrente non c'era, andavano alla sorgente la tenevano, vicino al lavandino, in una grande secchia di rame con un mestolo.
L'acqua corrente non c'era, andavano alla sorgente la tenevano, vicino al lavandino, in una grande secchia di rame con un mestolo.
Nella settimana che precedeva la Pasqua mia nonna Mabella si occupava della pasimata e dei dolci pasquali, la torta putta (chiamata così perchè piccante per la presenza di pepe e di formaggi come il pecorino stagionato) a base di riso, così come quella dolce, sempre con il riso e uova.
C'erano delle teglie rotonde di coccio e di rame attaccate al muro e dopo che erano state riempite venivano messe su una tavola di legno, portate fuori al forno a legna. Mia nonna seguiva la cottura mentre in casa si metteva a posto e a noi nipoti toccava, con grande gioia, ripulire con il dito gli avanzi della torta dolce.
Non tutte le famiglie avevano un forno a legna e in quei giorni i forno diventava comunitario. Arrivavano le donne di altre famiglie con le ceste con dentro i dolci da cuocere e per due giorni mio nonno diventava fornaio per gli altri.
Nessuno doveva pagare nulla ma c'era chi portava, come obolo non richiesto per il servizio di cottura, un fiasco di vino, chi aveva gli ulivi una bottiglia d'olio, ma la maggior parte, vista la condizione non certo di ricchezza, ringraziava per tanta gentilezza.
Il sabato santo era il giorno dedicato ai tordelli. I tordelli versiliesi sono delle specie di ravioli ripieni di carne conditi con ragù e formaggio grattugiato.
Il ripieno è composto da molti ingredienti e a volte varia da zona a zona e, a volte di casa in casa.
In quello di mia nonna c'era carne macinata e soffritta di manzo, di maiale e salsiccia, un pò di mortadella di Bologna, formaggio pecorino piccante e parmigiano, qualche uovo, bieta e borraggine lessate, pane ammollato nel latte, olio, pepe, sale noce moscata e timo serpillo.
Mia nonna tirava la pasta, farina uova e acqua e un pò di olio, con il mattarello sul grande tavolo di marmo, mia madre preparava il ripieno, mentre il ragù di carne bolliva per ore sulla stufa a legna.
Tirata la sfoglia, con colpetti veloci e sicuri mia nonna vi posava sopra piccole palline di ripieno, poi con un bicchiere tagliava la pasta a piccoli cerchi con il ripieno nel centro, poi venivano chiusi a mezzaluna.
A noi nipoti era concesso, con una forchetta, pigiare il bordo per chiuderlo meglio, facendo attenzione a non bucarli.
Poi venivano messi sul tavolo di salotto, coperto da un telo in fila indiana, e su più file. Noi bambini dovevamo posizionarli come tanti soldatini e con impegno formavamo delle file lunghe come il tavolo una accanto all'altra, con una precisione geometrica.
Una spolverata di farina poi coperti da un altro telo per una notte per fargli evaporare l'umidità.
Il giorno di Pasqua la mattina la casa si riempiva degli odori del sugo che finiva la sua cottura del pane appena sfornato e, da fuori, degli arrosti, polli e conigli allevati da mio nonno che cuocevano con le patate nel forno a legna.
Prima di andare alla messa si cuocevano i tordelli in un grande pentolone nel camino agganciato a una catena.
La nonna li scolava con un mestolo bucato di legno che aveva fatto mio nonno e li metteva in una teglia di coccio, mia madre li prendeva a uno ad uno e li posizionava tre zuppiere con il coperchio.
Uno strato di ragù, uno di formaggio grattato e uno di tordelli, e si proseguiva così fino a riempire la zuppiera e finendo con ragù e formaggio.
Le zuppiere venivano posizionate in un'altro pentolone coperte da dei teli di canapa, poi l'acqua di cottura veniva versate fin quasi a ricoprirle.
Sarebbero rimaste calde fino al ritorno dalla messa e il sugo, il formaggio e i tordelli si sarebbero fusi in una delizia per il palato e lo stomaco.
Quindi si andava, con il vestito della festa, in chiesa. Nel tavolo in salotto già dalla mattina presto mia nonna aveva preparato la tavola, in media tra tutti eravamo un dozzina. Al centro metteva sempre un vaso di vetro con dei rametti di ulivo benedetti legati da un nastrino bianco.
Poi il "servizio buono" piatti di porcellana Richard Ginori che gli aveva regalato sua sorella che abitava a Firenze. Bicchieri, posate la saliera e i fiaschi del vino che faceva mio nonno.
Tornati a casa tutti in piedi intorno al tavolo. Mio nonno diceva una preghiera, il segno della croce poi tutti seduti per mangiare.
Si inizava con un pezzetto di pasimata e un uovo sodo che veniva "pucciato" in un piattino dove c'erano mescolati di sale e pepe.
Qualche fetta di salame del maiale che tutti gli anni allevavano, qualche sott'olio e qualche cipollina sott'aceto sempre di produzione di mia nonna, e poi si iniziava con i tordelli per proseguire con arrosti e finire con i dolci innaffiati da un vino passito che faceva mio nonno con lo zibibbo.
A noi bambini era vietato, e l'unica concessione era un dito di vino rosso allungato con l'acqua. non c'erano uova di cioccolato ma mia nonna ci dava, alla fine del pranzo un confetto a testa che teneva in un barattolo di vetro nella credenza.
Preso il confetto correvamo nei campi a giocare mentre nell'aria si sentiva, forte, il profumo della serenità.
Non tutte le famiglie avevano un forno a legna e in quei giorni i forno diventava comunitario. Arrivavano le donne di altre famiglie con le ceste con dentro i dolci da cuocere e per due giorni mio nonno diventava fornaio per gli altri.
Nessuno doveva pagare nulla ma c'era chi portava, come obolo non richiesto per il servizio di cottura, un fiasco di vino, chi aveva gli ulivi una bottiglia d'olio, ma la maggior parte, vista la condizione non certo di ricchezza, ringraziava per tanta gentilezza.
Il sabato santo era il giorno dedicato ai tordelli. I tordelli versiliesi sono delle specie di ravioli ripieni di carne conditi con ragù e formaggio grattugiato.
Il ripieno è composto da molti ingredienti e a volte varia da zona a zona e, a volte di casa in casa.
In quello di mia nonna c'era carne macinata e soffritta di manzo, di maiale e salsiccia, un pò di mortadella di Bologna, formaggio pecorino piccante e parmigiano, qualche uovo, bieta e borraggine lessate, pane ammollato nel latte, olio, pepe, sale noce moscata e timo serpillo.
Mia nonna tirava la pasta, farina uova e acqua e un pò di olio, con il mattarello sul grande tavolo di marmo, mia madre preparava il ripieno, mentre il ragù di carne bolliva per ore sulla stufa a legna.
Tirata la sfoglia, con colpetti veloci e sicuri mia nonna vi posava sopra piccole palline di ripieno, poi con un bicchiere tagliava la pasta a piccoli cerchi con il ripieno nel centro, poi venivano chiusi a mezzaluna.
A noi nipoti era concesso, con una forchetta, pigiare il bordo per chiuderlo meglio, facendo attenzione a non bucarli.
Poi venivano messi sul tavolo di salotto, coperto da un telo in fila indiana, e su più file. Noi bambini dovevamo posizionarli come tanti soldatini e con impegno formavamo delle file lunghe come il tavolo una accanto all'altra, con una precisione geometrica.
Una spolverata di farina poi coperti da un altro telo per una notte per fargli evaporare l'umidità.
Il giorno di Pasqua la mattina la casa si riempiva degli odori del sugo che finiva la sua cottura del pane appena sfornato e, da fuori, degli arrosti, polli e conigli allevati da mio nonno che cuocevano con le patate nel forno a legna.
Prima di andare alla messa si cuocevano i tordelli in un grande pentolone nel camino agganciato a una catena.
La nonna li scolava con un mestolo bucato di legno che aveva fatto mio nonno e li metteva in una teglia di coccio, mia madre li prendeva a uno ad uno e li posizionava tre zuppiere con il coperchio.
Uno strato di ragù, uno di formaggio grattato e uno di tordelli, e si proseguiva così fino a riempire la zuppiera e finendo con ragù e formaggio.
Le zuppiere venivano posizionate in un'altro pentolone coperte da dei teli di canapa, poi l'acqua di cottura veniva versate fin quasi a ricoprirle.
Sarebbero rimaste calde fino al ritorno dalla messa e il sugo, il formaggio e i tordelli si sarebbero fusi in una delizia per il palato e lo stomaco.
Quindi si andava, con il vestito della festa, in chiesa. Nel tavolo in salotto già dalla mattina presto mia nonna aveva preparato la tavola, in media tra tutti eravamo un dozzina. Al centro metteva sempre un vaso di vetro con dei rametti di ulivo benedetti legati da un nastrino bianco.
Poi il "servizio buono" piatti di porcellana Richard Ginori che gli aveva regalato sua sorella che abitava a Firenze. Bicchieri, posate la saliera e i fiaschi del vino che faceva mio nonno.
Tornati a casa tutti in piedi intorno al tavolo. Mio nonno diceva una preghiera, il segno della croce poi tutti seduti per mangiare.
Si inizava con un pezzetto di pasimata e un uovo sodo che veniva "pucciato" in un piattino dove c'erano mescolati di sale e pepe.
Qualche fetta di salame del maiale che tutti gli anni allevavano, qualche sott'olio e qualche cipollina sott'aceto sempre di produzione di mia nonna, e poi si iniziava con i tordelli per proseguire con arrosti e finire con i dolci innaffiati da un vino passito che faceva mio nonno con lo zibibbo.
A noi bambini era vietato, e l'unica concessione era un dito di vino rosso allungato con l'acqua. non c'erano uova di cioccolato ma mia nonna ci dava, alla fine del pranzo un confetto a testa che teneva in un barattolo di vetro nella credenza.
Preso il confetto correvamo nei campi a giocare mentre nell'aria si sentiva, forte, il profumo della serenità.
Nessun commento:
Posta un commento