A Marina di Massa, in località Poveromo, Piero Calamandrei, illustre giurista, costruì subito prima della guerra una villino, fra i pini, dalla cui torretta poteva vedere il mare e le Apuane.
“Un rifugio sereno ma non mai pienamente felice: – annoterà Alessandro Galante Garrone in un ricordo del maestro – perché un’ombra di malinconia avvolse sempre questi suoi troppo brevi soggiorni.
Fin da quando si costruì la casa del Poveromo ebbe il sicuro presagio (e lo confidò agli amici) che i tedeschi l’avrebbero occupata, e la guerra l’avrebbe semidistrutta”.
A Poveromo, dove si era rifugiato dopo avere abbandonato l’insegnamento universitario a Firenze a seguito della denuncia di un collega avvocato delle sue tendenze antifasciste, il 25 luglio 1943 Calamandrei apprese dalla radio inglese della caduta di Mussolini.
A Poveromo si trovava l’8 settembre, data dell’armistizio. Il 12 settembre - “in due ore” ricorderà – i tedeschi cacciarono lui e la moglie dalla villa. Inseguito da un mandato di cattura, dovette abbandonate la zona e la Toscana.
Il 21 ottobre 1954, inaugurando la stele commemorativa della strage delle Fosse del Frigido, ricordava come da quei “giorni disperati” fosse nata la Resistenza, e individuava i caratteri di quella apuana.
"Qui gli eroismi e i sacrifici non furono soltanto dei partigiani in armi, ma furono di tutta la popolazione civile, rinserrata tra le linee di combattimento, come in un immenso campo di concentramento, tra le mine e le cannonate, nella desolata terra di nessuno.
Per questo alla provincia apuana, unica fra le province d’Italia, è stata data la medaglia d’oro: a tutta la provincia apuana, partigiana tutta, che seppe per diciannove mesi, colle sue sole forze, difendere e riconquistare giorno per giorno la sua libertà e il suo pane."
Calamandrei è ricordato anche per le molte epigrafi tra le quali quella dedicata ad Albert Kesselring.
Sarebbe lungo ricordare tutti i passaggi della vita di Calamandrei mi limito a ricordarne alcuni:
Nel 1939 divenne nuovo ministro di Grazia e Giustizia il bolognese Dino Grandi passato alla storia per la presentazione dell'omonimo ordine del giorno al Gran consiglio del fascismo del 25 luglio 1943 che portò alla destituzione di Benito Mussolini.
Grandi riprese in mano l'idea di riformare i codici e coinvolse i più importanti studiosi di procedura civile dell'epoca
avvalendosi di giuristi di altissimo livello, molti dei quali come appunto Piero Calamandrei e Francesco Messineo) notoriamente antifascisti.
I rapporti tra Calamandrei e il fascismo, negli ultimi anni, sono stati oggetto di un acceso dibattito tra gli studiosi del diritto processuale civile.
Da un lato hanno contestato l'effettiva adesione di Calamandrei a Giustizia e Libertà ed al Partito d'Azione, dall'altro hanno evidenziato la stretta collaborazione del maestro fiorentino con Dino Grandi nella redazione del codice di procedura civile.
Secondo altra dottrina i rapporti tra Calamandrei e il fascismo, ed in particolare tra Calamandrei e Grandi (ed il conseguente apporto del giurista alla redazione del codice di rito), andrebbero letti come un tentativo di - per così dire - "limitare il più possibile i danni.
Evitare, cioè, che la legislazione italiana (e quel che più conta l'imminente codice processuale) imboccasse una deriva nazionalsocialista.
In ogni caso, il regime fascista lo sorvegliò come antifascista sin dal 1931, registrando il suo nominativo nel Casellario politico centrale.
Contrario all'ingresso dell'Italia nella seconda guerra mondiale a fianco della Germania, nel 1941 aderì al movimento Giustizia e Libertà e un anno dopo fu tra i fondatori del Partito d'Azione insieme a Ferruccio Parri, Ugo La Malfa e altri.
Nel 1945 fu nominato membro della Consulta Nazionale in rappresentanza del Partito d'Azione e successivamente venne eletto all'Assemblea Costituente.
Calamandrei propose una repubblica presidenziale con "pesi e contrappesi", come negli Stati Uniti, o un sistema di premierato sul modello Westminster britannico.
Questo, secondo Calamandrei, per evitare la debolezza dei governi, come si verificò poi puntualmente durante la storia della repubblica.
E, allo stesso tempo, impedire la deriva autoritaria insita sia nel troppo potere, sia nel disordine delle istituzioni, come era avvenuto col fascismo.
Retrospettivamente, fu suo il giudizio sulla Costituzione "tripartitica", "di compromesso", nella quale le forze di destra per compensare quelle di sinistra per "una rivoluzione mancata" concessero loro "una rivoluzione promessa".
Nonostante ciò, difese sempre la repubblica parlamentare e la Costituzione, così come erano uscite dal dibattito democratico nella Costituente.
«Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti.
Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati.
Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra Costituzione"
(Piero Calamandrei, 26 gennaio 1955)