lunedì 24 agosto 2020

Gli occhi color del cielo

Per lei la vita non era stata facile. Era rimasta vedova a quarant'anni, nei primi anni sessanta, il marito morto di un brutto male e tre figli piccoli da crescere. 
Si chiamava Martina ma tutti in paese  la chiamavano Tina. Viveva in una vecchia casa di tre stanze e oltre a coltivare i campi ricamava e cuciva.

Aveva tre figli, due femmine e un maschio, venuti al mondo a un piao di anni uno dall'altro. 

Il più grande Giorgio, 13 anni, poi la Caterina, 11 anni e l'ultima la Dora di 9. Nonostante non avesse una situazione economica florida la Tina non gli faceva mancare nulla.

Cuciva lei i vestiti per tutti e tre, li mandava a scuola puliti e ordinati. Qualcuno del paese che aveva figli di quell'età a volte gli portava un paio di scarpe ancora buone perchè, si sa, i piedi dei bambini crescono anno per anno.

E la Tina si schermiva, non voleva regali, e allora bisognava insistere e lei ricambiava con un cesto d'uova o un paio di ascgiugamani tessuti al telaio e ricamati. 

E il donatore o la donatrice doveva quasi litigare per non accettare perchè sapeva che era una privazione per la Tina specialmente gli asciugamani che lei vendeva a una bottega della piana.

Era una donna alta, sempre vestita di nero, con i capelli neri raccolti dietro la nuca, con viso dai lineamenti greci.

Quello che colpiva della Tina erano gli occhi. Occhi cerulei che a volte erano di un azzurro chiarissimi a volte blu scuro. E spiccavano su quel viso già segnato da qualche ruga e bruciato dal sole.


La Tina ripeteva sempre ai figli che avrebbero dovuto studiare perchè così, forse, si sarebbero trovati bene nella vita. 

Passarono gli anni e la Tina invecchiava mentre i figli crescevano. La sera rimaneva sveglia al tavolo da cucina alla luce di una piccola lampada a ricamare con i suoi vecchi occhiali sul naso.

Giorgio continuava a studiare e dopo essersi diplomato aveva iniziato l'Università. E la sera anche lui si sedeva anche lui al tavolo a studiare e preparasi.

A volte la guardava, intenta a ricamare  pensando a quanta fatica aveva fatto per farlo studiare, per pagare le tasse della scuola e quello che serviva. Non solo lui ma anche le sorelle.

La Caterina e la Dora avevano finito le superiori. La Caterina aveva trovato lavoro come segretaria lontano da casa, a Pisa, e si era trasferità lì.

La Dora invece lavorava in una farmacia della piana e anche lei non abitava più al paese.

Ma quasi ogni domenica tornavano tutte e due insieme a trovare la Tina e Giorgio. E allora la Tina, con molti capelli bianchi, qualche ruga in più ma ancora con gli stessi bellissimi occhi preparava il pranzo della domenica.

E quando erano tutti al tavolo, diceva la preghiera poi iniziavano a mangiare e i suoi figli si raccontavano le cose della settimana. E ridevano e lei li guardava con orgoglio e quegli occhi azzurri si bagnavano appena.

Poi tutti e quattro insieme andavano sulla piazza del paese e le prendevano una grande coppa di gelato che a lei piaceva moltissimo. 

E i paesani passando salutavano ed erano contenti anche loro di quella bella famiglia che aveva superato, insieme, dolori e difficoltà.

Giorgio aveva scelto ingegneria e finalmente venne il giorno della laurea. Nei giorni precedenti la Caterina e la Dora avevano portato la mamma giù, nella piana.

Volevano comprargli un vestito nuovo e un paio di scarpe. Non gli avevano detto nulla e la Tina quando seppe la cosa disse che lei non si sarebbe vestita di altro che di nero.

Ma le due figlie erano intenzionate a farle cambiare idea e dopo un pò la convinsero almeno a provarne uno.

Quello che scelsero era un abito intero color salvia e dissero alla Tina di provarlo. Uscì dal camerino ed era bellissima, quel colore faceva risaltare ancora di più gli occhi.

Presero anche le scarpe nuove e tornarono in paese. La mattina dopo si prepararono tutte e tre per andare a Pisa dove Giorgio avrebbe discusso tesi.

Mentre stavano per uscire di casa Caterina mise al collo della mamma una catenina d'oro con un piccolo ciondolo rotondo attaccato. La Tina rimase interdetta. Non aveva mai avuto un gioiello nella sua vita tranne la fede nuziale.

La Dora gli fece vedere che il ciondolo si apriva e dentro c'era una piccola scritta "Alla nostra grande mamma" e incisi i nomi dei suoi figli.

La Tina le abbraccio tutte e due fortissimo, mentre quegli occhi azzurri come il cielo si inumidivano di nuovo.

Presero l'auto della Caterina e arrivarono a Pisa. Giorgio non era agitato ma quando vide sua madre scendere dall'auto il cuore gli batteva a mille all'ora.

Le andò incontro, la baciò sulle guance e la prese sottobraccio e con Caterina e Dora dietro andarono nell'aula magna.

Giorgio si laureò con 110 e lode e dopo qualche mese fu assunto da un'azienda petrolifera che aveva piattaforme sparse per il mondo.

Iniziò a viaggiare e tornava, quando poteva da sua madre per qualche giorno ma ogni settimana la chiamava al telefono dovunque lui fosse.

Caterina e Dora si erano sposate e avevano avuto dei figli e ogni domenica tornavano come avevano sempre fatto dalla Tina. 

E lei era felicissima di accogliere figlie e nipoti nella sua vecchia piccola casa che i figli le avevano ristrutturato.

Il compleanno della Tina era il 1 settembre e tutta la famiglia si riuniva in quella piccola casa, compreso Giorgio che non ci avrebbe rinunciato per nulla al mondo a costo di farsi licenziare.

La Tina aveva su un mobile in cucina le foto del marito, dei figli, dei nipoti e ogni sera, prima di andare a letto, le carezzava una ad una.

C'erano anche, in una piccola scatola di latta, le lettere e le cartoline che Giorgio le scriveva dai posti dove lavorava.

Poi apriva il piccolo ciondolo d'oro e gli dava tre baci, uno per ogni figlio.

Nonostante i capelli ormai tuti bianchi, e mile rughe nel viso, era sempre lucida e continuava a ricamare i corredi, diceva lei, per i miei nipoti.

E gli occhi color del cielo della Tina si chiusero per sempre una domenica di ottobre, in quella piccola casa con tutti i suoi cari intorno, dopo che aveva compiuto 87 anni.

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Ci sono solo due lasciti inesauribili che dobbiamo sperare di trasmettere ai nostri figli: delle radici e delle ali.
(Harding Carter)