Per secoli è stato il nostro pane , per secoli ci siamo sfamati con questo frutto della natura, in tempo di pace come in quello di guerra: la castagna. Si può cucinare in mille maniere, oggi per festeggiare questo frutto ci sono svariate feste e sagre, ma una volta non era così perchè era il mangiare quotidiano.
Verso la fine di ottobre cominciava un rituale vecchio di secoli: l'essiccatura delle castagne nei metati per poi portarle nei mulini a farne farina.
Questo è il bellissimo ricordo di quei gesti quotidiani ormai persi, quando il metato voleva anche dire "stare insieme". Il ricordo è di Vincenzo Giannarelli.
Dopo la coglitura, che si effettuava verso la fine d'ottobre, c'era una stasi nella routine lavorativa del contadino-montanaro, utilizzata per allestire il metato.
Era, questo, un fabbricato composto da due locali sovrapposti, senza pavimento intermedio e divisi soltanto da un graticcio mobile che veniva appoggiato sulla trave centrale fissa.
Una volta sistemato, dall'unica finestrella posta sopra la porta d'ingresso vi venivano cautamente distese sopra le castagne da seccare.
A pian terreno, sul pavimento di terra battuta, nel mezzo della stanza, veniva acceso il fuoco che doveva ardere ininterrottamente giorno e notte.
Torno torno, a ridosso delle pareti, venivano installate le panche per accogliere i vicini i quali, per consuetudine, vi si riunivano per trascorrere le serate insieme.
Queste riunioni avevano anche lo scopo di sorvegliare il regolare andamento dell'operazione seccatura, dato che le loro castagne erano state messe insieme alle nostre.
Si doveva entrare senza toccare la porta che era tenuta semi-aperta, in quanto doveva lasciar passare un flusso d'aria costante per mantenere il fumo unito a tela ad una certa altezza, in modo da non essere costretti a respirarlo o a trovarcelo davanti agli occhi.
Era l'epoca dei giornali della sera dove apparivano, diluiti in tante puntate, romanzi d'amore e di morte: «Il padrone delle ferriere», «Le due orfanelle», «I miserabili».
Mio padre, uno dei pochi del paese che sapesse leggere correntemente – da giovane aveva frequentato le Scuole che, a quei tempi, era come dire oggi l'Università – teneva banco.
Tutti pendevano dalle sue labbra dalle quali uscivano, di volta in volta, descrizioni poetiche di racconti romantici, epici racconti di duelli quasi sempre mortali per i protagonisti.
Si può senz'altro dire che la gente, in quel periodo, non vivesse che per ritrovarsi ad ascoltare un'altra puntata di quelle vicende.
Non era raro il caso che sulle panche non ci fosse più posto; allora, noi ragazzi, o ci portavamo da casa le seggioline, oppure dovevamo sederci sulle ginocchia delle mamme o delle nonne e lì aspettare, smaniando, che ci prendesse sonno.
Mio padre, intanto, alla luce di una lucernina ad olio, recitando più che leggendo, dava vita ai vari personaggi del romanzo.
A volte, in presenza di fatti o frasi per me incomprensibili, si interrompeva
all'improvviso e a chi chiedeva il motivo di quella pausa fatta sul più bello invariabilmente rispondeva.
Durante il pomeriggio, invece, il metato era il ritrovo dei ragazzi, dove le nonne narravano ai nipoti le storie e le leggende delle Apuane.
Era lì che la Bèna ci snocciolava una fòla (favola) dietro l'altra ed i suoi personaggi, tanto mirabilmente cesellati, s'imprimevano indelebilmente nella nostra memoria, complice il guizzante bagliore delle fiamme.
Per quasi un mese questo luogo era, per tutti, un caldo e confortevole rifugio, specie nei giorni in cui pioveva o faceva troppo freddo per giocare o lavorare.
L'ultima sera, poi, era di prammatica la smondinata – che venivano mangiate appena tolte dal fuoco, con una bella spruzzata sopra di striscino, vino frizzante nostrale di seconda passata.
Purtroppo, circa venticinque trenta giorni dopo, anche questo piccolo mondo si estingueva: infatti, poiché le castagne erano già secche, il fuoco veniva spento, il graticcio allargato e le secchine, precipitando dall'alto, riempivano... la sala delle riunioni, mettendo fine alle serate.
Poi, a poco a poco, mezzo sacco per volta, venivano pestate sul ciocco, per levare loro la pula, e portate al mulino.
Non appena il primo bolgio (sacco) di farina arrivava a casa, veniva ufficialmente inaugurata la nuova stagione con la polenta di neccio e questo avvenimento – quasi un rituale – dava l'addio all'autunno e preannunciava l'inizio del gelido inverno.
Il nonno Pasqualone, la mattina dopo, chiudeva a chiave il metato nel quale, come per magia, avrebbero continuato ad aleggiare quei personaggi che le voci di mio padre e della nonna Bèna avevano evocati.
Ma non sarebbero stati soli: assieme a loro, ci sarebbe senz'altro rimasto il ricordo di quelle violente emozioni che l'attento uditorio aveva vissuto, nella semi-oscurità appena rischiarata dalla debole e vacillante fiammella di una lucernina ad olio.
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Le castagne sono la pace del focolare. Cose d’altri tempi. Crepitare di vecchi legni, pellegrini smarriti.
(Federico García Lorca)
(Federico García Lorca)