venerdì 13 marzo 2020

Il Poeta


Era emigrato in Belgio, come molti della sua generazione, a lavorare in miniera. Quando tornò al paese era in pensione da un mese. 

Non era sposato perché la ragazza con cui era fidanzato in paese, a causa della distanza scandita da poche lettere e quasi nessun ritorno al paesello nemmeno nelle feste comandate, s’era innamorata di un altro, si era sposata e lei e suo marito emigrarono in Argentina. Da quel momento rimase scapolo per la vita. 

Fisicamente era alto, dinoccolato, folta chioma di pelo rosso e lentiggini nel viso. Vestiva sempre con un un vestito di fustagno, gilet, l’orologio da tasca e un fiocco nero alla maniera anarchica. Era tornato al paese e viveva nella casa dei suoi genitori ormai scomparsi.

Una casa che si affacciava sulla piazza del paese. La mattina, verso le 8, apriva la finestra del bagno e con una voce baritonale declamava il solito sonetto: “Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! chi vuol esser lieto sia di doman non v’è certezza.”

Poi dopo essersi vestito scendeva verso il bar, si sedeva a un tavolo in un angolo, prendeva un caffè e iniziava la lettura del giornale commentando ad alta voce le notizie del giorno.

Era soprannominato “Il Poeta” perché aveva l’abitudine di declamare poesie anche in francese. Di solito la performance avveniva davanti al bar dove in piedi su una sedia di legno, con il pubblico degli avventori, una mano sul fianco, l’altra a disegnare arabeschi nell’aria partiva con Pascoli, Carducci fino ad arrivare a suo amato Rimbaud.

Tenete presente che quell’improvvisato pubblico era composto per la maggior parte di anziani che per firmare mettevano una croce. Certamente non erano in possesso di una cultura sopraffina ma sapevano benissimo come far partorire una vacca.

Ma il Poeta aveva il potere, quasi magnetico di attirarne l’attenzione. Magari capiscano poco di quelle parole, tantomeno quelle in francese ma probabilmente, quel declamare ritmico e musicale li cullava come nel grembo della madre.

Oppure tanta attenzione silenziosa era dovuta al tasso alcolico delle ripetute bevute.

Alla fine dell’esibizione si inchinava lentamente e quello era il segnale per l’applauso che scattava caloroso.

Alla fine dell’esibizione si inchinava lentamente e quello era il segnale dell’applauso che scattava caloroso. Ma la sua presenza con relativa declamazione era ricercata nei matrimoni paesani. Lo invitavano tutti i novelli sposi perché la sua presenza rallegrava la compagnia.

Una mattina la finestra non si aprì e la voce baritonale non riempì i vicoli del paese. Salirono in casa, lo trovarono nel suo letto, ancora con i vestiti addosso, gli occhi chiusi, sembrava addormentato. Infarto sentenziò il medico.

Tutto il paese andò al funerale, tutti nessuno escluso, neonati compresi. 

Sulla sua lapide, nel piccolo cimitero, c’era il suo nome e cognome, gli anni di nascita e di morte e una piccola epigrafe, mutuata da Rimbaud, scritta dal maestro del paese.

“Al nostro Poeta che ha steso corde da campanile a campanile; ghirlande da finestra a finestra; catene d’oro da stella a stella, e ora danza nel nostro cuore”