lunedì 4 maggio 2020

La scartocciata


C'erano dei riti, in quella piccola comunità montanara e contadina come quella del paese delle piccole storie che si ripetevano con il cambio delle stagioni. Oltre al lavoro nei castagneti c'era quello nei campi.

Fino a quando non iniziò l'escavazione del marmo in forma organizzata e industriale, nei primi anni del 1900, e quindi la maggioranza degli uomini del paese andava a lavorare alle cave,  il reddito delle famiglie si basava su poche cose. 

C'era chi faceva il carbone per rivenderlo nella piana ai fabbri oltre che per uso domestico visto che non c'era il gas e quindi si usava una specie di piano cottura in muratura con dei buchi quadrati dove si metteva la brace del camino o il carbone.

Molti vivevano del prodotto dei castagneti, le castagne, la farina, oltre al legname sia per scaldarsi che per fare tavole e qualche piccolo arredo, sedie, tavoli.

Ma la coltivazione dei campi era quella che permetteva a tutti di sopravvivere in quei tempi grami. Molti avevano un maiale da allevare, le pecore e le capre da cui ricavare latte e formaggio, oltre alla ricotta, pochi una o due vacche, 

Ma tutti avevano un piccolo o grande pezzo di terra da coltivare.  Le coltivazioni erano per lo più a grano e granturco, orzo, frumento, qualcuno coltivava anche la canapa per uso tessile e il sorgo. 

Al servizio del paese c'erano tre mulini ad acqua, dove venivano macinati grano per la farina per il pane, granturco per quella da polenta, e le castagne.

Poi coltivavano patate, cavoli, rape, biete e fagioli. Fino alla metà degli anni 50 non coltivavano pomodori, insalate, o molte delle verdure a cui siamo abituati oggi. Nel paese a quel tempo non c'erano alimentari ne forni e tantomeno supermercati.

Le donne conoscevano benissimo l'uso delle erbe spontanee con cui si potevano fare zuppe e frittate con le uova delle proprie galline. Oltre a servirsene per piccoli medicamenti, tisane. 

Le semenze e un pò di patate venivano conservate con cura per l'anno dopo, era il capitale della famiglia. Non andavano al consorzio o all'agraria e quei semi non erano Ogm ma si erano adattati, naturalmente, al clima e al territorio in cui venivano coltivati da decenni.

Il forno a legna, che serviva sopratutto per cuocere il pane per tutta la settimana, non ce l'avevano tutti ma c'era una pratica di muto soccorso. In pratica chi ce l'aveva lo faceva usare anche agli altri. In cambio si portavano le fascine da bruciare per la propria infornata.

Non c'erano vigne ma solo qualche vite di uva fragola con cui si faceva un vino dolce e leggero il "fragolino" dal vago sentore, appunto, di fragola. Qualcuno ci ricavava anche una specie di acquavite.

Poi avevano fichi, noci, frutta in larga parte mele e pere. Non c'erano le fragole in vaschetta ma quelle di bosco o i mirtilli sotto i castagni. C'erano le sobre, nespole, i frutti del corbezzolo.

Per grandi e piccini la colazione di solito era latte delle proprie bestie e pane raffermo. A volte i "manifregoli" una specie di polenta non troppo solida in una scodella su cui si versava il latte o per i più fortunati la ricotta.

Il caffè non era contemplato nella dispensa paesana perchè troppo caro e non erano soliti andare nella piana a fare la spesa.

Come dicevo all'inizio ogni stagione aveva i suoi riti. Uno di questi era la raccolta del granturco e la sua lavorazione. 

Davanti a casa della mia bisnonna Anita, la mamma della mia nonna materna, c'era una grande aia in terra battuta. La casa era un pò fuori dal paese, non tanto grande e con una grande stalla di fianco e il fienile sopra la stalla. 

Davanti c'erano lunghi campi coltivati e una buona parte a granturco.  Il momento della raccolta, di solito avveniva tra fine settembre e tutto ottobre e comunque quando le piante erano secche.

Mi ricordo che c'erano due qualità di granturco, uno un pò alto e con pannocchie grandi e a otto file. L'altro più basso e che faceva una pannocchia sola e lo seminavano dove tirava più vento.

Mi lasciavano seduto sul soglio di casa insieme ai miei cuginetti e le donne e gli uomini andavano nei campi con delle gerle sulle spalle. 

Staccavo le pannocchie le riponevano nelle gerle e tornavano sull'aia dove c'erano stesi dei grandi teli fatti al telaio di canapa. Finito il raccolto tutti si sedevano attorno ai teli e iniziava la scartocciata,   lavorando due a due. 

Uno tirava giù le foglie intorno alla pannocchia lasciandola "nuda" poi si passava al vicino che le legava a mazzetti in numero di dieci o quindici.

Un altro passava e raccoglieva i mazzi delle pannocchie poi le portava sotto una grande tettoia vicino alla stalla e le posizionava su una specie di graticcio una accanto all'altra per asciugare.

Quando dopo un pò di tempo erano asciutte si prendevano i mazzi si riponevano al caldo, di solito in soffitta e poi sera per sera venivano sgranate e i chicchi venivano messi, dopo averli spulati in sacchi di juta e portati a macinare al mulino.

I campi venivano ripuliti in attesa del maggese, le foglie delle piante servivano per fare, insieme alle foglie di castagno secche il letto alle vacche o agli altri animali. 

I fusti ormai secchi servivano sia nel camino che per scaldare all'esterno della casa il pastone per il maiale.

La sgranatura delle pannocchie veniva fatta, a mano, nella grande cucina, davanti al camino, da grandi e piccoli e in particolare la sera dopo cena.  

E in quelle ore si raccontavano storie, filastrocche, inframmezzate da proverbi e preghiere. Quella era la loro televisione o il loro computer. La memoria, l'esperienza e  la cultura contadina tramandata di generazione in generazione in forma orale. 

Finita la sgranatura i torsoli delle pannocchie, messi da parte, sarebbero stati usati per accendere il camino. C'era chi ci ricavava delle pipe. Con le barbe delle pannocchie le bambine ci facevano i capelli alle bambole di stoffa.

Le foglie tolte alla pannocchie che erano più tenere di quelle del fusto venivano fatte seccare bene al sole e poi usate come riempimento dei materassi.

Mi ricordo a casa proprio della mia bisnonna di essere rimasto lì a dormire. Ma fra il letto in ferro che come mi muovevo cigolava e il rumore delle foglie secche è stata una notte insonne...

Quello che manca in questa piccola storia sono i profumi e odori di quegli anni. Forse perché legati ai ricordi dell'infanzia sono lì tra le righe, tra le parole. Io li sento, voi cercate di immaginarveli...

Ma non sono reali perché quel mondo, quelle persone e quei modi di vivere sono, appunto ricordi.

Rimane l'amarezza di un tempo che non c'è più. Non so se più bello o più brutto di quello che stiamo vivendo.

Certamente diverso, più vero. 
Negli affetti sopratutto.

E rivedo quella cucina semi buia illuminata da un lume a petrolio e dalle fiamme del camino, il rumore dei chicchi di granturco che cadono nel secchio, ombre che ridono e la voce della mia bisnonna...

"Pero, melo dimmi il vero, non mi dire una bugia 
Bada ben che qui ci sia!"

Apre la mano e c'è una lucciola...







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