venerdì 1 maggio 2020

Mio padre


Di mio nonno Luigi, il ragazzo del '99, e di mia nonna Mabella vi ho già raccontato. Avevano avuto tre figli, due maschi, uno era mio padre, e una femmina. 

Mio padre era nato nel 1928, ad agosto. Era il secondogenito. Mia zia Lide era nata nel 1924, e mio zio Angelo nel 1932. 

Mio padre si chiamava Amindo.
Mia nonna amava recitare a memoria l'Aminta di Torquato Tasso e se gli fosse nata un'altra donna voleva chiamarla Aminta.

Nemmeno mio padre ha mai capito il perchè di quel nome così strano e raro. Forse, diceva mio nonno, si erano sbagliati all'anagrafe perchè volevano chiamarlo Armido, che anche questo non è un nome di uso comune... E comunque quel nome ormai era il suo.

Aveva fatto le scuole, nella cittadina, fino a quella che, all'epoca si chiamava Avviamento o Scuola complementare le attuali medie inferiori. Tutte le mattine andava a scuola, a piedi, per la mulattiera insieme ad altri ragazzi del paese e, finite le lezioni, tornavano sempre a piedi.

Se pioveva aveva un ombrello di celandra, quaderni e libri in un tascapane di tela, niente merendine. La colazione era una tazza di latte della mucca che avevano e pezzi di pane.

Quando tornava a casa, pranzava e poi prendeva il gregge che avevano, una ventina tra pecore e capre e le portava al pascolo. Oltre a prendersi cura degli animali di casa, il maiale, la mucca, conigli, galline.

Mia zia aveva iniziato le magistrali che poi frequenterà anche mio zio e diventando maestri elementari. Mio padre, avrebbe voluto continuare a studiare, anche a lui piaceva diventare maestro elementare ed era un scolaro modello.

Mio nonno lavorava alle cave di marmo dove aveva iniziato a 9 anni come "boccia" e aveva continuato dopo che era tornato dalla Grande Guerra.

Mio padre gli disse che voleva continuare a studiare ma mio nonno gli aveva detto: "Omo, finito l'avviamento te verrai alle cave con me, c'è già la tu sorella che studia".

Non era quello che mio padre avrebbe voluto ma non c'era modo che mio nonno cambiasse idea. Lo sapeva e accettò in silenzio.

Lui e mio nonno si assomigliavano fisicamente e anche nel viso, mentre nei lineamenti io assomiglio più a mia madre. Fisico asciutto, non tanto alti. Ma di carattere erano diversi. Più espansivo mio padre, più taciturno e riservato mio nonno.

Iniziò ad andare alle cave appena finita la scuola e conseguita la licenza alla scuola secondaria. Mio nonno lavorava nel bacino del monte Altissimo ed era diventato capo cava per la precisione alla Tacca Bianca e lì andò anche mio padre che aveva 14 anni.

La mattina andavano alle cave, a piedi, sole o pioggia che fosse, e la sera ritornavano a casa. Una vita dura ed esposti al pericolo ogni giorno, ogni ora.

Poi arrivò la guerra e su quel monte fu posizionata la Linea Gotica. Le cave furono chiuse e molti uomini dei paesi montani furono impegnati, costretti dai tedeschi, nella costruzione delle fortificazioni.

Mio padre era rimasto a casa con sua madre e i fratelli e continuava ad accudire il gregge e gli animali oltre a curare quei poveri campi che avevano con un pò di grano e granturco.

Non furono mesi facili e in quel maggio del 1944 iniziarono i bombardamenti sulla rete ferroviaria della Versilia. 

Mio padre mi raccontava che lui aveva portato le pecore in un posto chiamato Mascima, un luogo impervio molto lontano da paese, sulla costa che vede il mare e in una grotta si era organizzato una specie di ovile e il suo giaciglio.

Questo perchè i tedeschi avevano iniziato a fare razzia, in paese, di maiali, pecore e tutto quello che era commestibile e le pecore erano tutto per loro, il loro piccolo patrimonio, dal latte alla lana.

Ogni tanto mio nonno gli portava un pò di polenta e un pò di farina di castagne. Le pecore le mungeva e poi faceva il formaggio dentro la grotta. Le pecore non avevano campani proprio perchè voleva evitare che qualcuno lo individuasse.

Mi raccontava che un giorno, nell'agosto del '44 mentre era a far pascolare le pecore vedeva delle colonne nere di fumo in direzione del monte Gabberi .

Pensò che fossero carbonaie accese visto che in quelle zone le facevano per vendere il carbone e che almeno lì fossero già arrivati gli alleati e si rincuorò pensando che la guerra stava finendo.

Ma invece, come seppe dopo qualche tempo, non erano carbonaie ma il fumo dei cadaveri bruciati a Sant'Anna di Stazzema dai nazisti aiutati dai fascisti.

Nel giugno del '44 i nazisti avevano decretato lo sfollamento verso la pianura padana di tutti i paese e le cittadine della Versilia con l'obbligo di dirigersi verso il passo della Cisa. 

In paese correva voce che gli alleati erano avanzati nella piana e erano quasi a Pisa e che la liberazione dai tedeschi era questione di settimane. Ma invece il fronte rimase fermo per sette mesi.

Alla fine di settembre del 1944 mio nonno, mia nonna con i due figli, mia zia e mio zio, sfollarono dal paese verso la piana dove erano arrivati gli alleati.

Mio padre ebbe l'ultima visita di mio nonno. Gli portò due sacchetti uno di farina di castagne e uno di farina di castagne, un pò di quelle secche e un sacchetto di patate e gli disse che loro passavano le linee e che lui doveva rimanere lassù e avere cura delle pecore.

Quando sarebbero arrivati, anche lì, gli alleati avrebbe potuto scendere a valle, con il gregge e andare a Viareggio dove lui aveva un amico pastore che aveva fatto la Grande Guerra con lui e lì si sarebbero ricongiunti.

Per la prima volta, ricordava mio padre, lo abbracciò e lo baciò sulla fronte: "Amì - era il diminutivo con cui lo chiamava - non farti trovare, ti aspetto laggiù".

Rimase lì, da solo, per quasi sette mesi, aveva 16 anni. La compagnia delle pecore, lavava i suoi panni a una sorgente e li poggiava sul prato ad asciugare.

Mangiava un pò di polenta o di mais o di castagne, beveva il latte delle pecore, cercava nel bosco qualche erba per farsi delle zuppe. 

La notte a volte, dopo aver sistemato le pecore andava vicino al paese, cercando di non farsi vedere dai tedeschi, dove c'erano degli alberi di frutta a prenderne qualche pera, susina, ciliegie.

Non passò mai nessuno da quelle parti tranne i piccoli ricognitori degli americani, lontano sopra l'Altissimo e il Folgorito che sorvolavano la linea Gotica e scattavano fotografie.

Quando la Linea Gotica cadde, nell'aprile del '45, mio padre andò con le pecore verso la piana e dopo qualche giorno arrivo dall'amico di suo padre, nella campagna di Viareggio, dove c'erano anche mio nonno, mia nonna e i sue due fratelli.

Mi raccontava di aver fatto pascolare le pecore nei pressi della stazione di Viareggio distrutta.

Finita la guerra ripresero il lavoro alle cave, lui fu mandato alle Cervaiole e mio nonno rimase nell'Altissimo. A quelle cave mio nonno ci lavorò 54 anni, mio padre è andato in pensione dopo 42 anni di lavoro dopo essere diventato anche lui capo cava.

Conosceva la montagna come le sue tasche, il verso e il contro del marmo. Era agile come una capra e aveva il rispetto di tutti perchè era onesto con tutti e il primo a  difendere quei pochi diritti che avevano.

Nel 1954 si sposò, dopo qualche anno di fidanzamento, con mia madre Giulia. Aveva anche fatto il militare, nella sanità al San Gallo a Firenze e si era congedato da sergente maggiore.

La passione per lo studio non l'aveva mai abbandonato e nel 1955 frequentò un corso serale a Viareggio per diventare infermiere. 

Partiva dal paese in bicicletta dopo il lavoro nelle cave, arrivava a Querceta poi in treno a Viareggio. Finito il corso, verso le 11 di sera rifaceva lo stesso percorso. E la mattina alle 5.30 si alzava per andare incava.

Lo fece per quattro mesi e si diplomò. Ma continuò a lavorare in cava e quel diploma forse era la sua rivincita.

Gli servì solo per diventare responsabile del primo soccorso nelle cave delle Cervaiole e avere qualche lira in più sullo stipendio oltre a fare le punture ai paesani.

Fece anche un corso, di fochino cioè quello che si occupa di esplosivi in ambito civile e in cava venivano usati. E ho sempre il suo patentino come ricordo.

Suonava anche lui, come mio nonno, la tromba nella banda paesana. E ha avuto sempre, quando non lavorava, la passione a coltivare i campi ed accudire gli animali. Non più le pecore ma galline e conigli in una casetta che si trovava a metà della mulattiera dal paese alle cave.

Quando è morta mia madre, nel 1979, io sono partito per il militare un mese dopo lasciandolo solo in quella casa piena di ricordi. 

Quando sono tornato nel 1980 ho iniziato a lavorare anch'io alle cave con lui. Non era una tradizione di famiglia ma era consuetudine in paese, non era facile fare altri lavori e quindi la cava si passava di padre in figlio, era il posto sicuro e stabile.

Ho lavorato alle Cervaiole quattro anni prima di cambiare lavoro e andare ad abitare verso Viareggio. Lui è rimasto in paese e ha continuato a lavorare fino alla pensione. E non è mai tornato a rivedere dove aveva lavorato per quasi una vita.

Da dove abitavo, nella piana, vedevo l'Altissimo e le Cervaiole e lo sentivo meno lontano anche se tutte le domeniche tornavo al paese, gli portavo la spesa, e pranzavamo insieme oltre a sentirci tutte le sere al telefono.

Non voleva lasciare il paese e capivo il perchè e non ho mai insistito perché venisse ad abitare con me, ma nel 2010 è venuto ad abitare con me perché il suo fisico era provato da quei 42 anni di cava e da una vita in cui non si era mai risparmiato.

E' stato qui cinque anni, in una camera tutta sua, ed era sereno perché anche qui c'era il bosco, la terra e gli animali. 

Fino poco prima che morisse veniva nel campo con me, con il bastone, mi insegnava, come quando ero bambino, a come tagliare le patate da seminare, a come fare un cesto di bucce di castagno.

Quando mio figlio si è laureato è voluto essere presente alla discussione della tesi. E aveva gli occhi lucidi forse perché vedeva in suo nipote la realizzazione di quel sogno che aveva sempre avuto.

Mi ha insegnato a vivere e che la fatica è parte della vita, che dal cielo cade pioggia non soldi e che il pane si guadagna con il sudore e i calli nelle mani.

Mi ha insegnato il rispetto degli altri e di non chiedere favori o vantaggi a nessuno perché non sarei più stato libero di dire no.

Ne tu ne la mamma mi avete mai sfiorato nemmeno con un dito. Mi avete solo fatto capire dove sbagliavo e che essere responsabili significa pensare che le nostre azioni hanno conseguenze.

Quando hai chiuso gli occhi quell'ottobre di cinque anni fa, mi hai stretto la mano, come fece la mamma la sera prima di andarsene per sempre.

Ogni tanto sfoglio gli album con le vostre foto ed è un bel ricordare...


Se non l'avete letta qui trovate la piccola storia di mia madre: 
https://memoriepaesane.blogspot.com/2020/03/sempre.html

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Le lacrime e le paure di un padre sono invisibili, il suo amore è silenzioso, ma la sua cura e protezione rimangono come un sostegno forte per tutta la vita.
(Ama H. ​​Vanniarachchy)