sabato 30 maggio 2020

Calimero


In paese c'era fino alla fine degli anni sessanta un fabbro ferraio. Si chiamava Sergio ma tutti lo chiamavano Calimero. 
Era piccolo, fisico asciutto e il soprannome, come il pulcino della pubblicità, gli derivava da fatto che era nero di fuliggine del carbone. Portava sempre una vecchia tuta e un piccolo basco.

Aveva la ferriera, o per meglio dire il distendino, poco fuori dal paese, in un campo dove erano ammassati pezzi di ferro, di balestre di camione, tubi, pezzi di rotaie del treno.

Il posto era stato costruito da suo padre, una casa di pietra a ridosso di un costone del monte dove sgorgava una sorgente necessaria per fare andare la tromba idroeolica.

L'acqua, insieme al carbone, era la "benzina" del fabbro, serviva a far andare il maglio per battere il ferro. Un sistema a caduta faceva girare gli ingranaggi e, con perizia, Calimero azionava il maglio e il rumore ritmico risuonava fino in paese.

L'acqua azionava anche la sega per il ferro. Non c'era elettricità ma quattro grandi finestre fatte come una vetrata trasparente che davano luce all'interno. 

La casa era composta da due grandi stanzoni, pavimento in terra battuta e alta circa 8 metri, senza primo piano perchè il fuoco e il fumo delle forge aveva bisogno di andare verso l'alto. E in alto sui fianchi dell pareti c'erano delle prese d'aria proprio per far defluire il fumo.

Nel primo stanzone c'erano due forge e un forno tutti alimentati a carbone di castagno, che Calimero prendeva da un paesano che faceva il carbonaio. 

Un paio di incudini e addossato alla parte un grande banco di legno pesantissimo. Martelli, pinze, lime e tutti gli attrezzi da fabbro erano agganciati all'altra parete a portata di mano.

Nell'altro stanzone c'era la sega per il ferro e il maglio oltre a un paio di tavoli di legno addossati alla parete con delle morse.

Non c'era elettricità, ne macchinari elettrici tipo frullini o saldatrici. Il papà di Calimero, che a quello che dicevano era una specie di Archimede Pitagorico, 
sempre sfruttando l'acqua a caduta aveva realizzato anche una specie di centrale elettrica.

Con delle dinamo, altri aggeggi e delle batterie di camion, residuati della seconda guerra mondiale, per produrre un pò di energia elettrica per far funzionare qualche lampadina sempre di camion.

Noi ragazzi eravamo affascinati da quel luogo e finita la scuola molte volte andavamo a trovare Calimero e vederlo lavorare.

Tutto nero com'era spiccava il bianco dei denti e degli occhi e incuteva timore ma era la persona più gentile che io abbia mai conosciuto.

A volte ci insegnava a usare il maglio, con il pedale che apriva o chiudeva l'acqua dando più o meno velocità di battuta. 

Ci faceva scommettere su chi avrebbe alzato, dando un colpo sull'incudine, il martello più pesante che aveva. E il premio era uns acchetto di noccioline americane che lui aveva sempre in tasca e che ogni tanto sgranocchiava.

Il soffio della forgia quando gli dava aria, le scintille mentre con le lunghe pinze smuoveva il carbone  e poi sotto i colpi del maglio e lui con il martello sull'incudine prendevano forma vanghe, zappe, badili, pennati.

La produzione, sia di suo padre che di Calimero era sempre stata fino al primo dopoguerra dedicata alla forgiatura di attrezzi contadini, oppure di pezzi per il camino, gli alari, il fondo per non far disperdere il calore, le molle per smuovere le braci e spostare la legna.

Realizzavano anche ferri per i cavali e i muli, letti in ferro per i paesani, i testi per fare i necci, pentoloni, e poi subbie, martelli, zeppe, pali da tecchia per i cavatori.

Qualche volta facevano i rinforzi in ferro per le ruote dei carri con i buoi che portavano il marmo dalle cave alla marina per essere imbarcato sulle piccole golette.
C'erano anche le croci per il piccolo cimitero tra i lavori di Calimero e suo padre.

Nei primi anni cinquanta, in piena ricostruzione, avevano iniziato a fare anche ringhiere e cancellate. Ma sempre tutto a mano, senza alcun ausilio di macchinario elettrico.

Calimerò iniziò, dopo la morte del padre, a realizzare lampadari in ferro battuto e aveva sempre delle ordinazioni anche dai paesi della piana.

Calimero abitava in due piccole stanze in paese e non si era mai sposato. Non era un assiduo frequentatore dei bar e solo il sabato sera si concedeva qualche ora di distrazione con una partita a carte uan volta al Cro, una volta al circolo Enal per non scontentare nessuno.

Arrivava che non lo riconoscevi. Tutto pulito, il vestito e le scarpe della festa, e un cappello tipo borsalino. Solo se gli guardavi le mani notavi che, nonostante  fossero tagliate, gli rimaneva un pò di nerofumo sotto le unghie.

Non frequentava la chiesa perchè diceva: " Io sono tutto il giorno all'Inferno e il Paradiso mi spetta di diritto anche senza pregare".

Ma era il primo che quando c'era da dare una mano al parroco si presentava per qualsiasi esigenza.

Un giorno lo trovarono svenuto nella ferriera. Lo portarono all'ospedale e dopo che gli furono fatte le analisi e tutti gli esami necessari il medico condotto gli disse che doveva dargli una brutta notizia.

Aveva un male incurabile e pochi mesi di vita.

Calimero rimase in silenzio, poi ringraziò il dottore e tornò al paese. Finì di lavorare a un paio di lavori che doveva consegnare e dopo iniziò a lavorare a con il grande portone chiuso. Si sentivano i soliti rumori del ferro battuto ma nessuno sapeva a cosa lavorasse.

Noi ragazzi provavamo a guardare dalle finestre ma erano troppo in alto e non ci riuscivamo. dopo un mese il portone si riaprì, Calimero uscì tirando a mano un piccolo carretto su cui c'era una cosa coperta da un sacco di juta.

Arrivò sulla piazza e chiamò tutti i paesani che erano nei bar. Si disposero a cerchio intorno a lui. E Calimero disse: "Ho lavorato insieme a mio padre per tanti anni. E altrettanti da solo. Ora non ho più molto tempo davanti..."... 

"Ma che dici? Dai che guarirai!" disse uno "No, sapete tutti che morirò presto e allora vi chiedo un favore."... così dicendo scoprì l'oggetto sul piccolo carretto.

Era una croce di ferro battuto su cui era inciso il suo soprannome. La croce era avvolta da piccoli rami di quercia e di ulivo e due piccoli uccellini posati sui bracci della croce.

Una finezza di particolari, un arabesco di ferro che le mani capaci di Calimero avevano reso possibile.

"Quando sarò morto avrò la mia tomba nella terra e  promettetemi di mettere questa croce come mio ricordo".

Ricoprì la croce, nel silenzio della piazza... e si incamminò verso l'officina. 

Morì dopo poche settimane, nel suo letto di ferro e con i paesani che facevano a turno a portargli da mangiare, accudirlo nei suoi bisogni.

Quando arrivò il prete per dargli l'estrema unzione Calimero aveva gli occhi chiusi, quando sentì il prete che lo segnava con l'olio lo guardò e gli strinse il polso.

"Ho sentito che lassù c'è un cancello di ferro. Sono sicuro che l'ha fatto mi pà..."

La sua croce è ancora lì nel piccolo cimitero.
E forse Calimero è lassù a intrecciate foglie di quercia e di ulivo insieme a suo padre.






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