venerdì 4 settembre 2020

La pietra del vituperio


Ancora oggi, per indicare una persona che è andata in rovina, si dice che “è rimasta in mutande” oppure, nel nord Italia, che “è rimasta in braghe di tela”.
Queste espressioni provengono dal Medioevo e sono la diretta conseguenza di una condanna che veniva inflitta a chi non era in grado di pagare i suoi debiti. 

Si trattava di una sorta di berlina, di espiazione pubblica, che in alcune parti d’Italia sostituiva punizioni ben più gravi, come una serie di frustate, o il carcere.

A parte qualche variante territoriale, generalmente la procedura consisteva nel portare il colpevole nella piazza pubblica, vestito solo di un paio di braghe, da cui deriva l’espressione “restare in mutande”.

Qui doveva battere, sedendosi, tre volte le natiche su una pietra, detta del “vituperio”, pronunciando ad ogni seduta la frase «cedo bonis», ossia “rinuncio a tutti i miei beni” (sottinteso “in favore dei creditori”).

In questa maniera, se da una parte il malcapitato risolveva il problema del pagamento dei suoi debiti, dall’altra però la sua poca o nulla solvibilità veniva resa pubblica e, da quel giorno, difficilmente avrebbe trovato qualcuno disposto a fargli credito.

Si hanno notizie di “pietre del vituperio” in alcune città italiane.

A Pescocostanzo, in Abruzzo, ai piedi della scalinata che conduce a Santa Maria del Colle, si trova una di queste “pietre”, di forma cilindrica alta circa 80 centimetri e del diametro di 70 centimetri.

Nel caso di Pescocostanzo il debitore doveva restare seduto sulla pietra per un certo periodo di tempo esposto al pubblico ludibrio, senza dover recitare alcuna formula.

Nella vicina Tagliacozzo la “pietra” era chiamata “pilozzo” ed era un sedile in pietra con un foro al centro. Era situata in piazza Obelisco ma nel 1825 venne sostituita da una fontana a forma di obelisco.

A Modena è una grande lastra di marmo rosso rettangolare della lunghezza di tre metri, situata nell’angolo nord-est di piazza Grande. È chiamata anche “preda ringadora” (“pietra dell’arringa”) e venne utilizzata, oltre che come palco di oratori, anche come luogo dove esporre cadaveri di sconosciuti, per essere identificati.

Secondo i documenti conservati all’Archivio Storico Comunale, il debitore insolvente, nel giorno del mercato, dopo aver fatto il giro della piazza con la testa rasata e uno speciale copricapo.

Preceduto dal suono di una tromba, doveva dichiararsi fallito e «dare a culo nudo suso la preda rengadora, la quale sia ben unta de trementina, tre volte dicendo tre volte “cedo bonis, cedo bonis, cedo bonis”», e questo doveva accadere per tre sabati su richiesta dei creditori.

Quella di Padova, invece, è costituita da un blocco di porfido nero poggiato su una base quadrata. A questa pietra si collega un episodio della vita di Sant’Antonio, protettore della città. 

Nel Medioevo, a Padova, coloro che non potevano pagare i loro debiti, anche per cause di forza maggiore o disgrazie personali, venivano condannati senza appello al carcere perpetuo oppure al tratto di corda.

Nel 1231, tre mesi prima della sua morte, il Santo si presentò davanti al Consiglio Maggiore, chiedendo che le pene per i debitori, così dure, fossero sostituite dalla berlina. Il 15 marzo di quell’anno il podestà di Padova ordinò che «per ricerca del venerando frate Antonio nessuno per alcun debito sia carcerato».

Nel 1260 venne ufficializzato il luogo della berlina, ossia la “pietra del vituperio”: il debitore insolvente doveva spogliarsi (probabilmente anche i vestiti venivano confiscati dai creditori), rimanendo con la sola camicia e in mutande.

Quindi alla presenza di almeno cento persone doveva sedersi per tre volte sulla pietra ripetendo «cedo bonis» e poi lasciare la città per rifarsi una vita. 

Qualora fosse rientrato senza il consenso dei creditori, sarebbe stato nuovamente costretto a sedere sulla “pietra del vituperio” e in più gli sarebbero stati gettati addosso tre secchi d’acqua.

La pietra si trovava all’angolo del Palazzo delle Debite, che ospitava il carcere, ma dopo la richiesta di Sant’Antonio fu portata al centro della sala del Consiglio Maggiore nel Palazzo della Ragione.

Fu utilizzata anche come basamento per i banditori che davano lettura ufficiale degli editti pubblici. Attualmente è collocata alla destra dell’entrata principale dello stesso palazzo.

Una procedura simile, ma per la semplice rinuncia dei propri beni, era prevista anche negli Statuti medievali di Civitavecchia (prima metà del XIII secolo). 

Al capo XXXVI del Libro I “De civili” è illustrata la procedura da seguire per la rinuncia dei beni, senza alcuna specifica del motivo per cui si rinunzia:

«Statuimo che qualunque renunzierà o vorrà renunziare a li suoi beni […] deve uscire de la sala del palazo del commune, et ire sino a la piaza del peso et debanli an-dare nante li trebiatori...

... sonando colle trombe in tanto che nudo con le natiche dica tre fiate “cedo bonis” che vole dire renunzio et do luogo a li miei beni, percotendo le dicte natiche così nude fortemente ne la pietra. 

Et poi questo deve stare uno mese fora de Civitavecchia e suo distretto. Et questo non habia luogo ne le femine le quali possano renuntiare a li beni secundo la ragione comune senza le predecte solennità.

Et queste renuntiationi se retraggano in scripto in publica forma. Et si altramente fussero facte non abiano fermezza […]».

Testo di Enzo Valentini